mercoledì 28 ottobre 2009

Donne

Riflessione dalle pagine del Corriere dell'avvocato Giulia Bongiorno.
Parole belle, difficili e vere:

"Lasciamo da parte, per un momento, il dibattito sul comportamento richiesto a chi ricopre incarichi pubblici. Lasciamo da parte anche il pruriginoso sottodibattito, che pure intorno alla vicenda Marrazzo si è scatenato, sulla natura peculiare della condotta privata dell’ex presidente della Regione Lazio e sulle conseguenze che tutto ciò ha avuto sulla sua vita familiare. In tanto dibattere, infatti, c’è un elemento che prescinde dalla figura di Piero Marrazzo e che dà abbondante materiale di riflessione: la scelta di Roberta Serdoz, sua moglie. Una scelta sorprendente. Di fronte a un tradimento, qualunque tradimento, si tende a ritenere che una donna abbia una sola alternativa: tutelare la propriadignità chiudendo il rapporto, oppure custodire l’unità familiare e la sua immagine. Questo in teoria. Non è sempre detto, infatti, che nella vita vissuta tutte abbiano la possibilità di scegliere liberamente in che modo reagire: a causa del ruolo debole, o comunque non pienamente autonomo, che spesso le donne rivestono all’interno della famiglia, la decisione può diventare forzata, obbligatoriamente preferenziale.
Tuttavia, è vero che nelle coppie in cui la donna è emancipata, questa alternativa di solito c’è. E Roberta Serdoz, che ha un lavoro di giornalista, una carriera, una vita sua, ce l’aveva di sicuro. Avrebbe potuto, quindi, lasciare il marito; avrebbe potuto dirgli di fare le valigie, o decidere di andarsene. Anzi. Sarebbe stata la scelta più ovvia, quella che ci saremmo aspettati. Anche perché l’immagine della sua famiglia si era già sbriciolata nei mille particolari, amplificati da giornali e televisioni, della condotta privata dell’uomo pubblico Marrazzo, suo marito. Cos’altro avrebbe dovuto o potuto fare lei, a quel punto, se non privilegiare la propria dignità? Sarebbe stata la tipica scelta di una donna emancipata: uscire da una storia dolorosa e imbarazzante, prenderne le distanze per quanto possibile. Ne avrebbe avuto i mezzi e l’opportunità. E invece, con la forza che le donne a volte sanno tirare fuori, Roberta Serdoz spiazza tutti inventandosi una terza via: fa prevalere l’esigenza di restare vicino al marito. Non perché così impone il dovere coniugale, ma perché suo marito è — al momento — la parte debole. Perché lei ha deciso, in piena libertà, che in questo frangente la priorità non è lei stessa. E così facendo ha compiuto una vera scelta di emancipazione: si è emancipata persino dal bisogno di dimostrare la propria dignità. Ci ha rinunciato, sapendo di non esservi costretta.

In questa insolita scelta di forza, Roberta Serdoz rivela un’attitudine che abita le donne, sebbene spesso rimanga nascosta: sapere quando è il momento di prendere in mano la situazione. Essere all’altezza, in un attimo. Dopo essersi adattate, magari per anni, a ruoli anonimi, dimessi, defilati, ma preparandosi silenziosamente ad assumere un ruolo diverso, senza smettere mai di coltivare la capacità di diventare artefici del destino proprio e altrui. Una marcia in più che appartiene alle donne, quasi ontologicamente.Perché sono abituate a combattere, addestrate dalla storia ma anche dalla biologia. Abituate a fare più fatica degli altri, a sopportare un colpo in più e a rimanere in piedi lo stesso. In circostanze normali, non hanno nemmeno bisogno di mostrarlo: lo fanno e basta. In circostanze eccezionali, questa straordinaria capacità emerge in forme e modalità imprevedibili. Come è successo a Roberta Serdoz. Della cui scelta, a prescindere da ogni altra considerazione, mi piace sottolineare la singolarità: quando la nave rischia di affondare solitamente tutti l’abbandonano, lei non solo non l’ha abbandonata ma ne ha assunto coraggiosamente il comando."

domenica 25 ottobre 2009

Comunque vada...

...oggi abbiamo vinto noi. Noi che abbiamo creduto sempre nella necessita' di questo partito, anche quando tutto faceva presupporre che era meglio tornare indietro. Noi che vogliamo ancora crederci, nonostante la stanchezza, la distanza, gli scandali. Noi che sappiamo stare allo stesso tavolo a chiacchierare della nostra vita anche se sappiamo che stiamo votando idee diverse per lo stesso futuro. Noi che "io resto qui" anche se sarai tu a vincere e io no. Noi che la parola democratico ce l'abbiamo dentro piu' di tanti altri e dunque accettiamo che la maggioranza vinca, che le regole non si cambino in corsa anche se sbagliate, che la tua idea di "bene" comprende anche me, e viceversa.
Noi che ogni differenza ci arricchisce. Noi che accetteremo ogni risultato col sorriso. Noi che quasi 3 milioni (o forse piu') sono la cosa piu' importante di oggi.
Ci tengo, diceva lo slogan della giornata. I CARE, diceva uno slogan simile di qualche anno fa. Ci tengo. Mi importa. Mi riguarda.
E da domani si cammina di nuovo assieme, gambe leggere, cuore saldo, direzione ben chiara. Verso il futuro, dove vivremo il resto della nostra vita.

domenica 11 ottobre 2009

Della casa (e di altre amenita')

Incontro alle 8 di un sabato sera. Nel pub di Mayfair ci sono Gian e la Malli, reduci da un sabato di vagabondaggio per Londra con mille metro chiuse per ristrutturazione (le Olimpiadi del 2012 stanno rendendo i nostri weekend difficili!), e Curro (il nostro architetto, o presunto tale) con la sua futura fidanzata (lei non lo sa, forse non lo sa nemmeno lui, ma la Malli fa la recruiter e il "non verbale" per lei non ha segreti!)

Si discute della casa. Dei mobili. Di come incastrare armadi, dell'altezza, del colore. Del pavimento, delle porte, dei materiali. E l'architetto parla parla parla. Con Gian, non con me. Io faccio le domande, lui risponde a Gian. La cosa mi manda il sangue alla testa (e ci vuole poco, comunque, anche molto meno!)
Con un paio di interventi ben assestati rivolti a Gian (dato che l'architetto non sembra accorgersi della mia pur ingombrante presenza), faccio capire che:
1) In quella casa io ci dovro' vivere, quindi tutto questo MI RIGUARDA
2) In quella casa io saro' la "femmina", e dato che mi sono pigliata il maschio medio italiano, a me tocchera' tutto quello che concerne l'organizzazione degli spazi, e saro' io a decidere se gli armadi sono sufficienti, se i pannelli li voglio scorrevoli o pieghevoli, se voglio che il divano sia il focus della living room e non il tavolo, di cui non ce ne facciamo nulla, in 2, dato che mangiamo a casa 3 cene a settimana e nessun pranzo!
3) In quella casa io ci passero' il mio poco tempo libero, dunque in uno sforzo di proiezione, se mi immagino guardare la tele in una fredda serata invernale, voglio avere la porta finestra che da' sul balcone alla mia sinistra e non dietro le spalle
4) In quella casa ci passero' magari qualche anno (sono abbastanza rassegnata ad una vita vagabonda, so che questa e' solo una tappa), dunque voglio avere attorno a me colori che amo. Se dico che assieme al bianco totale che sara' ovunque, voglio dei dettagli rosso fuoco, non sono pronta a negoziare per un motivo che nemmeno capisco il rosso fuoco con l'arancione.
5) La mia casa sara' lineare. Che significa senza fronzoli, curve, ricami. Sara' sobria e pulita. Ma questo non significa che devo trovare una simmetria superiore persino nell'allineamento del water con la libreria della camera. Questa e' un'ossessione, non e' sobrieta'!!!

Insomma, e' stato un sabato sera difficile. Gian ride perche' dice che prendo le cose un po' di petto con l'architetto. Io invece non sopporto che questo mi dica "Beh, avete un armadio a 8 ante e alto 4 metri in camera, vi basta!" perche' non lo puo' sapere. Non puo' sapere che ho vestiti ancora inscatolati da quando sono arrivata, o scarpe di cui ignoro l'esistenza perche' sono finite chissa' dove. Idem per i libri: chiedergli di aggiungere una libreria alta quanto la casa (4 metri) urtava la linearita' delle sue idee. Ma io i libri dove li metto? Il tapino stava suggerendo di venderli. Ha visto lo sguardo rosso (fuoco, non arancione!) nei miei occhi e ha desistito.

Prima di salutare, ho fatto presente che passero' alla casa lunedi sera a dare un occhio. Tanto per sottolineare che non e' che mi si mette da parte cosi'. Che se fin'ora sono stata presa dalla mia vita lavorativa un po' totalizzante, ora ho deciso che ci sono. L'architetto ha detto "Ah, ma forse passo io coi muratori lunedi..." E io "Ti do' comunque il permesso di passare, non mi disturbate..."
Non pestarmi i piedi, o potresti ritrovarti il tallone fratturato:)

venerdì 9 ottobre 2009

NOBama

Copio di seguito le parole che Luca Sofri nel suo blog dedica a Barack Obama e al Nobel per la Pace appena assegnatoli. Condivido tutto, in pieno, come spesso accade.

Nobel intentions
Ultimamente vado per elenchi.Ci sono in giro tre atteggiamenti riguardo all’assegnazione del Nobel a Barack Obama (quattro, se includiamo quelli che manco lo sanno, e cinque con quelli che non gli viene neanche un pensiero in proposito).Il primo è quello di quelli che si indignano e protestano. Che mi pare un po’ fuor di misura. Il Nobel, ricordiamocelo, è l’idea di un piccolo gruppo di persone in Norvegia di dare un premio su una cosa molto generica e vaga. Ha guadagnato molto prestigio per ragioni storiche e pubblicitarie, ma quel prestigio consolidato (e anzi ultimamente un po’ in declino) è l’unica legittimazione della sua importanza. Quella scelta non ha, insomma, maggiori ragioni di assolutezza o condivisione di quella che potrebbero fare una manciata di signori modenesi sufficientemente colti, che si trovino a mangiare del cultatello e discutere dei loro libri preferiti di quest’anno. E al tempo stesso, è una scelta che non ha debiti con nessuno: “facciamo un po’ quello che ci pare”, per i signori del Nobel, sarebbe una risposta del tutto legittima. In questo è davvero come il festival di Sanremo, o lo Strega: il problema non è che esistano o come funzionino, ma che qualcuno li prenda così dannatamente sul serio in questa società fatta di comunicazione di liste, classifiche, abitudini e schematismi.La seconda reazione è quella di chi più sobriamente si dice deluso o meravigliato. Secondo me chi non pensa che Obama possa fare del bene al suo paese e al mondo, chi lo reputa politicamente pericoloso, chi non crede che alle sue parole seguiranno mai dei fatti, e chi insomma non investe in lui e nelle cose che dice di voler fare nessuna fiducia o speranza, fa bene a essere deluso o meravigliato. Per loro è un’occasione buttata via.Il terzo è quello di chi invece è contento di molte cose che Obama ha detto di voler fare finora, e di quelle che sta cercando di fare, e di chi crede che predicare bene sia una cosa importante di per sé, e poi per razzolare altrettanto bene, e di chi sa che altre volte il Nobel è stato dato a persone che indicavano una direzione prima ancora di conseguire i risultati conseguenti (Gore, Arafat, Peres e Rabin neanche li hanno mai conseguiti, né altri per loro; Walesa fu premiato che era ancora all’inizio dell’opera), e di chi sa che quanto a risultati conseguiti la sola vittoria di un nero alle elezioni americane non scherza, e di chi pensa che il Nobel possa non essere solo un argomento da conversazione da bar (o da blog) ma ci vedono un’opportunità concreta – come in tutte le cose, grandi e piccole – e quindi si augurano che la sua assegnazione aiuti Obama a fare buone cose.Il titolare, qui, sta in fondo alla lunga fila di questi ultimi.

Habits


Ci sono appuntamenti che ci mettono un secondo a diventare abitudini. Soprattutto se sono appuntamenti ciarlieri, dolci e di pausa.
Come il breakfast del venerdi mattina (a venerdi alterni) al 5 piano, sul terrazzo (se stare al coperto-tutto vetri- o scoperto dipende dall'audacia del soggetto), o il Cake Day, come la mia collega Amanda lo chiama, bambinescamente.
Alle 9.30 dei venerdi in questione (stamane, per intenderci), tutti gli impiegati (qui a Londra siamo ben oltre le 300 unita') si recano al 5 piano e si autoservono brioche, frutta e bevande calde e fredde che l'azienda mette gentilmente a disposizione. E' il momento delle chiacchiere, del gossip, della conoscenza al di la' dei ruoli. Sono momenti di relax (20 min, mezz'ora al massimo) il cui senso e': conoscetevi, apprezzatevi per le persone che siete, e non solo perche' per contratto dovete lavorare assieme.
Questo venerdi mattina e' stato divertente: tra una brioche e un caffe, ho salutato un paio di ragazzi assunti da me, e poi con le mie colleghe inglesi (e quindi prive di reazione di fronte al freddo glaciale) ci siamo portate sul terrazzo esterno a chiacchierare del weekend imminente, delle vacanze meno imminenti, degli occhi di una ragazza nel finance (ma solo perche' erano incredibilmente belli), dei capelli di una ex collega (ma solo perche' cambiava pettinatura e colore una volta al mese), del fatto che io ho sempre freddo, del fatto che a 10 gradi stare sul terrazzo a maniche corte e senza calze sembrava una follia, a me (non alle suddette colleghe, prive anche della tipica reazione "a pelle d'oca"). Insomma, amenita' varie che fahnno cominciare questo venerdi un pochino piu' leggeri. Di testa. E pesanti di stomaco. Le brioche inglesi, quelle non ve le raccomando proprio!!